La mia storia con l'emofilia non ha un inizio preciso e, per il momento, non ha neanche una fine, ma tutti speriamo che prima o poi qualcosa cambi. Il mio primo figlio è nato nel 2006 e ha sempre avuto una certa facilità a procurarsi dei lividi, abbiamo tante foto degli anni del nido in cui sembrava un unicorno perché aveva sempre un grosso bernoccolo viola in mezzo alla fronte.
A giugno del 2013, a seguito di quella che sembrava una banale caduta durante la festa della scuola, e dopo qualche giorno di tour fra pronto soccorsi e ospedali è stato ricoverato al Rizzoli di Bologna dove gli è stata diagnosticata prima una lieve carenza del fattore VIII poi al Sant'Orsola dove la diagnosi è diventata quella definitiva di Emofilia A grave: qui abbiamo conosciuto alcune angiologhe meravigliose una delle quali si definiva "idraulico della medicina" perché si occupava di tubi rotti e/o otturati, oltre ad un autentico angelo vestita da infermiera che, tra l'altro, tifa anche la nostra stessa squadra di pallacanestro.
I primi mesi dopo la dimissione dall'ospedale sono stati piuttosto complicati per il fatto che il malefico emartro al ginocchio continuava a ripresentarsi, e anche, o forse soprattutto, per lo tsunami che ci aveva travolto tra endovene, pianti, notti insonni e mille ansie di ogni genere; se adesso, dopo quasi sei anni mi guardo indietro devo dire che abbiamo veramente fatto passi da giganti, abbiamo trovato tanti aiuti inaspettati e che, tutto sommato, come ho imparato dagli scout, all'insegna del “always look on the bright side of life” questa storia mi ha insegnato tante cose oltre a centrare una vena al primo colpo, soprattutto su come approcciare i problemi della vita e sul giusto peso da dare alle cose che ci circondano.
A dispetto delle nefaste previsioni che mi toglievano il sonno nel 2013, oggi mio figlio è un pre-adolescente che conduce una vita intensa tra scuola, basket, web-radio, attività scout e chi più ne ha più ne metta, forse il suo carattere più che esuberante, la sua incredibile sfacciataggine e il suo essere, come dico sempre io “un gran pajaz” (pagliaccio in bolognese) in questi anni hanno aiutato lui e noi ad affrontare questa avventura che il destino, o chi per esso, ci ha messo di fronte e alla quale speriamo che la ricerca scientifica trovi una soluzione definitiva.